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Lo shutdown americano: il rituale della paralisi che minaccia la democrazia

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C’è un’espressione che negli Stati Uniti torna ciclicamente come un fantasma e che, a forza di ripetersi, rischia di sembrare quasi banale: government shutdown. Eppure, ogni volta che questo evento si verifica lascia cicatrici che vanno oltre la politica quotidiana di Washington, toccando l’economia reale, la fiducia dei cittadini e perfino l’immagine internazionale della democrazia americana.

Lo shutdown è il risultato più concreto dell’incapacità di compromesso. Quando Congresso e Casa Bianca non riescono ad approvare in tempo la legge di bilancio o almeno una misura temporanea di finanziamento, la macchina amministrativa si ferma. Le agenzie prive di fondi chiudono i battenti, centinaia di migliaia di dipendenti pubblici finiscono in congedo non retribuito, i musei e i parchi nazionali sbarrano le porte ai visitatori, molte pratiche burocratiche rimangono sospese. Restano in piedi solo i servizi considerati vitali: difesa, sicurezza, pronto soccorso, pagamenti pensionistici obbligatori. Perfino i numeri, cioè quelle statistiche macroeconomiche che guidano le scelte di politica monetaria e che alimentano i mercati globali, si interrompono: i report su occupazione, inflazione e PIL possono subire ritardi o sospensioni, lasciando la Federal Reserve e gli investitori senza la bussola. Questo aspetto è di fondamentale rilevanza per le “nostre tasche”, infatti con un’inflazione ancora “appiccicosa” e un mercato del lavoro in deterioramento, lascia con le spalle al muro la capacità di reazione e decisione della Federal Reserve, in un momento molto critico per il futuro andamento economico statunitense.

Dal 1976 a oggi gli Stati Uniti hanno vissuto una ventina di shutdown. In media durano poco più di una settimana. Non sono dunque una novità, né un evento raro. Ma il loro ritorno ciclico ha creato una sorta di “normalizzazione” del disordine: l’idea che si possa convivere con la paralisi istituzionale senza troppi danni. Una convinzione alimentata anche dai mercati finanziari, che storicamente hanno reagito con sorprendente resilienza. Secondo i dati raccolti da Carson Investment Research, durante gli shutdown l’indice S&P 500 ha reso in media un modesto +0,3 per cento, e a distanza di dodici mesi dalla riapertura è cresciuto nell’86 per cento dei casi, con guadagni superiori al 12 per cento. La finanza, insomma, tende a guardare oltre, convinta che, prima o poi, il compromesso arrivi sempre.

Eppure, gli effetti sull’economia reale sono concreti. Ogni settimana di shutdown costa allo Stato circa uno o due decimi di punto percentuale di crescita del PIL. Lo stop più lungo, quello del 2018-2019 sotto l’amministrazione Trump, durato 35 giorni, ha bruciato circa 3 miliardi di dollari di attività economica non recuperabile. Piccole imprese in attesa di contratti, lavoratori senza stipendio, comunità private di servizi: tutti hanno pagato un prezzo. Si tratta di danni che non affondano il gigante americano, ma che accumulano costi reputazionali e generano sfiducia nei confronti di un governo incapace di mantenere continuità.

Se in passato lo shutdown era un “rumore di fondo” tollerabile, oggi la situazione appare più rischiosa. Non solo per il contesto macroeconomico, che appare molto più fragile e complesso, tra inflazione ancora persistente, crescita rallentata e tensioni geopolitiche. La vera novità è politica, l’amministrazione Trump, secondo quanto denunciato da sindacati e osservatori, avrebbe chiesto alle agenzie federali di predisporre piani di riduzione permanente del personale, le cosiddette Reductions in Force. Non più dunque semplice sospensione temporanea, ma licenziamenti strutturali. Sarebbe un cambio di paradigma: lo shutdown usato non come arma di pressione momentanea, ma come strumento per ridisegnare l’architettura dello Stato federale. Una prospettiva che alimenta tensioni sociali e apre fronti legali, poiché andrebbe a intaccare la normativa che garantisce il pagamento degli arretrati ai dipendenti pubblici.

Il nodo centrale resta comunque quello del debito. Lo shutdown, da solo, può bloccare uffici e salari, ma non impedisce al Tesoro di onorare le proprie scadenze. Il tetto legale all’indebitamento federale (debt ceiling), invece, se non innalzato, rischia di provocare un default tecnico, con effetti devastanti non solo per gli Stati Uniti ma per l’intera economia globale. Ed è proprio qui che lo shutdown diventa più minaccioso: se la paralisi sul bilancio dovesse trasformarsi in un braccio di ferro sul tetto del debito, il rischio di crisi sistemica si materializzerebbe. Le agenzie di rating hanno già messo in guardia: la governance fiscale americana è in deterioramento e l’affidabilità della tripla A non può più essere data per scontata.

In questo intreccio si gioca non solo la stabilità economica, ma anche la qualità della democrazia. Per i cittadini, vedere il governo paralizzato significa percepire che le istituzioni non sono in grado di funzionare. La percezione del debito come problema prioritario, accanto all'inflazione e alla sanità, si traduce in una crescente sfiducia. Ogni shutdown diventa così non solo un episodio tecnico, ma un colpo alla legittimità delle istituzioni, un segno di impotenza dello Stato.

Gli scenari possibili sono diversi. Una chiusura breve, di una o due settimane, produrrebbe solo un po’ di volatilità, con i mercati pronti ad assorbire lo shock. Un blocco prolungato, fino a un mese, genererebbe danni economici più seri e qualche segno sulla crescita. L’ipotesi estrema resta però quella dell’escalation sul tetto del debito: un default tecnico che scuoterebbe i Treasury, farebbe fuggire gli investitori dagli asset americani e potrebbe riscrivere gli equilibri del sistema finanziario globale. Infine, c’è lo scenario politico più radicale: lo shutdown come preludio a una ristrutturazione permanente, con tagli strutturali al personale e ridimensionamento dello Stato federale.

Per gli investitori, la storia invita alla prudenza ma anche alla calma. Le statistiche mostrano che i mercati, nel medio periodo, hanno sempre saputo riprendersi. Tuttavia, la natura politica di questa crisi impone un’attenzione maggiore. Chi vuole proteggersi deve mantenere diversificazione, riserve di liquidità e soprattutto monitorare con attenzione i segnali provenienti da Washington e dalle agenzie di rating.

In definitiva, lo shutdown non è più un rituale scomodo ma tollerabile. Oggi rischia di diventare un banco di prova sulla sostenibilità del debito americano, sulla stabilità delle istituzioni e sulla capacità stessa della democrazia statunitense di trovare compromessi. Quella che poteva sembrare una parentesi temporanea, insomma, rischia di trasformarsi in uno spartiacque nella storia politica ed economica degli Stati Uniti.

 


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