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La gestione collettiva del risparmio

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Quando parliamo di “gestione collettiva del risparmio” pensiamo subito ai fondi di investimento, alle società che li amministrano e, in generale, al meccanismo con cui i risparmi di molti vengono raccolti e trasformati in portafogli diversificati. Ma l’idea di fondo è più semplice di quanto sembri: si tratta di delegare a professionisti autorizzati le decisioni di acquisto e vendita di attività finanziarie o reali, seguendo regole predefinite e controlli stringenti, così da ottenere un risultato utile nel tempo. Questa delega nasce da un’esigenza pratica. Investire bene richiede conoscenze, tempo, accesso a informazioni e una capacità costante di misurare il rischio. La gestione collettiva consente di sommare risorse e competenze, ridurre i costi unitari e costruire portafogli che un singolo risparmiatore, con capitali limitati, difficilmente riuscirebbe a replicare da solo.

In Europa questo mondo si regge su due grandi pilastri normativi. Il primo è l’insieme delle direttive UCITS, la “cornice armonizzata” per i fondi aperti pensati anche per il pubblico retail, con regole severe su liquidità, diversificazione e trasparenza. Il secondo è la AIFMD, che disciplina tutti gli altri organismi di investimento collettivo – i cosiddetti fondi alternativi – spesso rivolti a investitori professionali o, quando aperti ai retail, soggetti a cautele ulteriori. La distinzione non è un dettaglio tecnico: determina quanto un fondo può investire in strumenti illiquidi, quanta leva può usare, come comunicherà rischi e costi, con quali diritti di entrata e uscita per il sottoscrittore.

Al centro di tutto c’è l’OICR, l’Organismo di Investimento Collettivo del Risparmio. È un contenitore giuridico nel quale confluisce un patrimonio raccolto presso una pluralità di investitori attraverso l’emissione di quote o di azioni. Il gestore amministra quel patrimonio “in monte”, cioè in modo unitario, nell’interesse di tutti e in piena autonomia rispetto ai partecipanti. L’autonomia non è una formula astratta: significa che il gestore non costruisce un portafoglio su misura per ciascuno, come avviene nella gestione individuale, ma opera secondo una politica d’investimento comune, scritta nero su bianco prima che la raccolta inizi. In quella politica si definiscono in quali mercati e strumenti si può investire, quali limiti di rischio vanno rispettati, in che misura si possono utilizzare derivati o fare ricorso alla leva, quale orizzonte temporale si immagina per la strategia. Solo se questi elementi sono presenti – pluralità di investitori, gestione in monte, oggetto d’investimento ammesso e politica predeterminata – possiamo parlare a tutti gli effetti di OICR.

I protagonisti che danno vita e sostanza a questo meccanismo sono tre, con ruoli distinti. La SGR, società di gestione del risparmio, è una società per azioni che istituisce e/o gestisce OICR. Non investe il proprio patrimonio per conto del fondo, ma amministra quello dei sottoscrittori sulla base del regolamento o dello statuto. Accanto alle SGR ci sono le SICAV e le SICAF, che sono OICR “in forma societaria”. La prima ha capitale variabile: emette e rimborsa azioni in via continuativa ed è tipicamente assimilata a un fondo aperto. La seconda ha capitale fisso: la raccolta avviene in finestre definite e non prevede il rimborso su base giornaliera, caratteristica tipica dei fondi chiusi che investono in attività meno liquide come immobili o partecipazioni in società non quotate. In SICAV e in SICAF l’investitore non è solo partecipante: è anche azionista. Questo può sembrare un tecnicismo, ma incide sul modo in cui si esercitano certi diritti societari e sulla relazione con l’organo gestorio, fermo restando che la gestione del portafoglio resta autonoma e svincolata dalle istruzioni dei singoli investitori.

Un ruolo essenziale, ma spesso poco conosciuto al grande pubblico, è quello del depositario. Ogni OICR deve affidare a un depositario unico – in genere una banca abilitata – la custodia degli strumenti finanziari e delle somme di denaro, oltre alla verifica della conformità delle operazioni e del calcolo del valore della quota o dell’azione (il famoso NAV). Il depositario non prende decisioni di investimento, ma vigila. Se il fondo compra immobili o crediti, che non possono essere “depositati” come un’azione, il depositario tiene traccia, verifica titolarità e coerenza con la politica d’investimento, controlla i flussi e segnala irregolarità. È un ulteriore strato di protezione per l’investitore, insieme alla segregazione patrimoniale: il patrimonio del fondo è separato da quello del gestore e dei sottoscrittori, e non entra nelle vicende creditorie della società di gestione.

Per il lettore che si avvicina per la prima volta al tema, uno spartiacque pratico è la distinzione tra fondi aperti e fondi chiusi. Nei fondi aperti, tipici del mondo UCITS, l’investitore può sottoscrivere e chiedere il rimborso con frequenza regolare, spesso quotidiana o settimanale. Questo implica che il portafoglio debba essere composto in larga parte da strumenti liquidi, in modo da consentire entrate e uscite senza compromettere la strategia. Nei fondi chiusi, invece, non si ha il diritto di ottenere il rimborso prima della scadenza del fondo, se non nei limiti e con le modalità stabilite nei documenti costitutivi. È la struttura più coerente per strategie su asset illiquidi – immobili, infrastrutture, private equity, private debt – dove creare e disfare posizioni richiede tempo e dove la promessa di liquidità giornaliera sarebbe semplicemente irrealistica.

Comprendere la differenza tra UCITS e AIFMD aiuta a orientarsi anche nella scelta dei prodotti. I fondi UCITS sono armonizzati a livello europeo: hanno limiti stringenti di diversificazione, requisiti di liquidità e un’informativa standardizzata pensata per essere chiara a un risparmiatore non specialista. È la categoria nella quale ricadono i tradizionali fondi azionari, obbligazionari, bilanciati e anche molti ETF quotati, che sono a tutti gli effetti OICR a gestione passiva. I fondi alternativi, inquadrati nella AIFMD, sono invece l’ombrello sotto il quale convivono strategie e asset molto diversi: dagli hedge fund ai fondi immobiliari, dai veicoli di private equity ai fondi di credito diretto, fino agli ELTIF o ad altri schemi europei con finalità e platee specifiche. Qui la regola è meno uniforme perché gli investimenti sono più specializzati; proprio per questo la legge prevede cautele sul pubblico a cui possono essere collocati e sulla chiarezza delle informazioni fornite.

Prima di partire, però, ogni OICR deve nascere “su carta”. La società proponente redige un prospetto o regolamento (o statuto, nel caso societario) dove si espongono obiettivi, rischi, costi, criteri di selezione degli investimenti, uso di derivati, politiche di sostenibilità, benchmark di riferimento se previsto e orizzonte temporale suggerito. L’autorità competente – in Italia la Banca d’Italia, sentita la Consob – rilascia l’autorizzazione, verificando che l’architettura organizzativa sia adeguata, che i ruoli di controllo interno siano presidiati e che l’informativa agli investitori sia completa e comprensibile. È in questa fase che si definisce anche il perimetro dei poteri delegabili a terzi: la SGR può esternalizzare funzioni specifiche, ma non può svuotarsi; resta responsabile verso gli investitori e le autorità.

Una volta operativo, il fondo vive di una routine precisa. Raccoglie capitale, investe secondo le regole scritte, valuta il portafoglio con una frequenza definita e pubblica il valore della quota o dell’azione. Comunica periodicamente risultati, rischi e costi, consegnando ai sottoscrittori documenti sintetici come il KID, che riassume le informazioni chiave sulla natura del prodotto, i fattori di rischio principali e gli oneri complessivi. I costi sono sempre un tema sensibile perché incidono sul rendimento netto: esistono spese correnti di gestione, eventuali commissioni di sottoscrizione o rimborso e, in certi casi, commissioni di performance. Queste ultime sono ammesse ma devono seguire criteri trasparenti e prudenziali, per esempio il principio dell’high-water mark, in modo che il gestore sia premiato solo per valore realmente creato oltre una soglia e non per rimbalzi tecnici.

Cosa acquista, concretamente, un OICR? La risposta dipende dal suo mandato. Un fondo obbligazionario area euro comprerà titoli di Stato e corporate investment grade della zona euro, con limiti per emittente e scadenza. Un fondo azionario globale punterà su società quotate di vari Paesi, magari con criteri settoriali o fattori di stile. Un fondo immobiliare investirà in edifici a reddito o in sviluppo – uffici, logistica, retail o residenziale – selezionando asset, inquilini, piani industriali e fonti di finanziamento. Un fondo di private equity acquisterà partecipazioni in aziende non quotate, contribuendo alla loro crescita, ristrutturazione o internazionalizzazione. Esistono poi veicoli che erogano finanziamenti a imprese (private debt) o che investono in infrastrutture fisiche e sociali. La gamma è ampia e in continua evoluzione; ciò che non cambia è la necessità di coerenza tra promettere e fare: la politica scritta e la realtà del portafoglio devono combaciare.

Il tema della tutela del risparmiatore attraversa ogni passaggio. La segregazione patrimoniale è la prima difesa: il patrimonio del fondo è autonomo e, se il gestore avesse problemi, gli asset restano lì, sotto il controllo del depositario. La trasparenza è la seconda: documenti standardizzati aiutano a confrontare prodotti diversi, comprendere i rischi e valutare costi e rendimenti storici, ricordando che questi ultimi non sono garanzia di risultati futuri. La vigilanza è la terza: Banca d’Italia e Consob hanno poteri ispettivi e sanzionatori per presidiare stabilità, correttezza e informazione al pubblico. Infine, nei casi in cui i prodotti siano complessi o rivolti a una platea retail, entrano in gioco regole di condotta che impongono agli intermediari di verificare la coerenza tra il profilo dell’investitore e le caratteristiche del prodotto in termini di obiettivi, orizzonte, conoscenze, esperienza e tolleranza al rischio.

È utile, a questo punto, tornare al perché esiste la gestione collettiva. Un risparmiatore che investe da solo deve decidere ogni giorno se comprare o vendere, su quali mercati puntare, quanto esporsi a una singola azienda o a un singolo Paese, come proteggersi dall’inflazione o dal rischio di tasso, quando ribilanciare. La gestione collettiva organizza queste scelte dentro un processo e le affida a un team con responsabilità chiare, sistemi di controllo, accesso a ricerca e mercati e, soprattutto, obblighi di trasparenza. In cambio, l’investitore accetta regole comuni, tempi tecnici e costi che remunerano un servizio. È uno scambio che ha senso quando la diversificazione, la qualità del processo e il presidio dei rischi aggiungono più valore di quanto costino.

Resta un’ultima considerazione sull’orizzonte temporale. I fondi aperti di tipo UCITS sono adatti a strategie che hanno bisogno di flessibilità e liquidità; il loro rendimento si costruisce giorno per giorno, e il sottoscrittore può uscire se cambia idea o se ha bisogno di contante. I fondi chiusi – tipici di molte strategie alternative – sono invece pensati per pazientare: immobiliare, private equity e infrastrutture creano valore operando sugli asset, non puntando sul movimento quotidiano dei prezzi. È un investimento che chiede tempo per essere misurato, ma che può offrire rendimenti decorrelati dai mercati quotati, flussi stabili o premi per l’illiquidità. Capire questa differenza è decisivo per evitare delusioni: non esiste il prodotto “migliore” in assoluto, esiste il prodotto coerente con i propri obiettivi e con il proprio respiro finanziario.

In conclusione, la gestione collettiva del risparmio è un’architettura che trasforma l’insieme dei piccoli patrimoni in capitali capaci di muoversi con efficacia sui mercati. Lo fa grazie a regole europee chiare, ruoli separati, controlli indipendenti e un patto di trasparenza con l’investitore. Non promette miracoli, né elimina l’incertezza che accompagna ogni investimento, ma offre un metodo: una politica scritta, un processo professionale e una vigilanza che riduce gli spazi di ambiguità. A chi decide di utilizzarla chiede due cose soltanto: di leggere con attenzione che cosa c’è scritto nei documenti e di scegliersi un orizzonte temporale compatibile con la strategia del fondo. Il resto – costruzione del portafoglio, gestione dei rischi, disciplina nelle decisioni – lo farà il gestore, con la consapevolezza di avere un compito tanto tecnico quanto fiduciario: custodire e far crescere, nel tempo, il risparmio di molti.


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